Nato il 17 novembre del 1930 a Faenza, il cammino del Maltoni scienziato si colloca interamente nella cornice della lotta al cancro. Cesare si costruisce un punto di vista originale e anticonformista in oncologia diventando medico a Bologna, mostrando una chiara propensione verso l’oncologia sperimentale e la cancerogenesi chimica.
Per un periodo a Parigi e a Chicago; – la fine degli anni ’50 del secolo scorso – in cui perfezionarsi fuori dall’Italia significava tirare la cinghia lontano dalla famiglia e dagli affetti.
Durante il duro apprendistato con ricercatori del calibro di Francois Zajdela o Albert Tannenbaum, Cesare apprende la religione del buon lavoro di laboratorio.
Formandosi anche la convinzione (i lavori di Leslie Foulds parlavano già, nel 1954, di ‘progressione tumorale’ per riferirsi all’evoluzione di un cancro verso stadi sempre più maligni) che la ricerca biologica e farmacologica non erano destinate a creare in tempi brevi delle nuove sostanze in grado di uccidere solo le cellule cancerose. Risparmiando quelle sane.
I tumori, specie quelli solidi, appaiono allo sguardo attento e allenato del Maltoni citologo come il risultato di un’oscura collaborazione fra cellule malate e organismo. Nel 1961, negli interventi che tiene al rientro in Italia di fronte ai colleghi oncologi riuniti nei congressi di Napoli e Bari, il trentenne ricercatore faentino espone i concreti indizi sperimentali che gli suggeriscono – correttamente – che il tumore esercita un controllo sulle cellule del tessuto connettivo ‘sano’ che lo circonda e che sono queste a permettergli di ricevere dal corpo le sostanze nutrienti che gli permettono di crescere.
Parlare di ‘autonomia’ del tumore non poteva più avere il senso di alludere a una generica capacità di colonizzazione ‘anarchica’ – seguendo l’opinione condivisa dai più e che viene spesso ripresa ancora oggi -, ma piuttosto a una sua effettiva e ben più insidiosa capacità di ‘auto-organizzarsi’ ai danni dell’ospite.
La nuova “verità” che Cesare ha saldamente afferrato è che il corpo del malato non lotta affatto contro il tumore, ma si mette al suo servizio.
Tra i pochi oncologi di talento ad aver colto – e siamo all’inizio degli anni ’60 – le grandi implicazioni di questa premessa apparentemente semplice, Cesare Maltoni giunge alla scelta di orientare le proprie competenze nella direzione della prevenzione anticancro. Una scelta che lui lega al proprio rientro a Bologna e fondata sulla considerazione di come non fosse del tutto etico per un medico come lui starsene a elaborare teorie che forse non avrebbero mai visto una conferma, mentre tanti cancerosi venivano abbandonati nelle corsie degli ospedali e chi campava cinque anni dalla diagnosi poteva dirsi fortunato. Uno scienziato che opera nella biomedicina, soprattutto se il suo orizzonte ultimo è il malato, ha il dovere dell’azione: creare istituti, far crescere altri medici in grado di fare diagnosi oncologiche, costruire progetti che permettano di abbassare l’incidenza dei tumori a partire da quanto, del cancro, è già noto.
In America, lottando contro i pregiudizi di tanti accademici, un medico di origine greca, Georgios Papanicolaou (quello del Pap-Test), aveva mostrato che al microscopio si potevano identificare i vari stadi che portano una cellula sana a diventare tumorale. La citologia esfoliativa, leggendo in un vetrino le lesioni pre-neoplastiche, poteva salvare la vita. Per prima quella delle donne, che a migliaia continuavano ad ammalarsi di tumore della cervice e della mammella.
Il Belpaese però è il fanalino di coda nella prevenzione anticancro. Nel 1962, divenuto responsabile di una piccola unità di ricerca dentro al Consultorio Oncologico Felice Addarii di Bologna, Maltoni si dà un obiettivo per certi versi utopico: lanciare nel capoluogo emiliano il più vasto screening sui tumori dell’utero mai realizzato in Europa. E’ così sicuro di sé da parlarne a congressi e simposi in giro per il mondo, incuriosendo colleghi ben più famosi di lui (come Walter Davis …) con le sue citazioni colte e la chiarezza che ha nell’esaminare lo stato dell’arte in oncologia.
Nel 1964 Cesare trova una sponda nel Senatore del Partito Comunista Luigi Orlandi e insieme si appoggiano all’organizzazione territoriale del PCI per creare aspettativa intorno al progetto. Il Prof. partecipa personalmente a decine di incontri in tutta la provincia e ovunque risponde, stimola, rassicura. La stampa locale e nazionale inizia a rilanciare l’iniziativa, che prende vita a dicembre del 1965.
Entratovi quasi in sordina, Cesare è ormai il punto di riferimento dell’Addarii. L’anziano fondatore, Francesco Addarii, gliene lascia di fatto la guida, riconoscendo le sue eccezionali capacità organizzative. La Direzione dell’Ospedale ‘Sant’Orsola’, che vedeva Maltoni come un outsider stravagante, deve ora investire su di lui: il nuovo “Istituto Oncologico” cambia pelle definitivamente.
Con l’avvio dello screening, a gennaio del 1966, l’Addarii è ormai un potente concentrato di tecnologia e know-how. Bologna stessa risponde agli appelli in modo massiccio e in soli due anni 125.000 donne vengono visitate; negli ambulatori del centro come in quelli dell’hinterland. Centinaia sono i tumori della cervice in stadio iniziale e le lesioni pretumorali che vengono diagnosticate in pochi anni attraverso lo striscio, evitando a decine di pazienti di contrarre il male o di vederlo giungere alla fase avanzata. Sotto la guida di Donata Carretti, il gruppo delle biologhe cellulari dell’Addarii dà prova di efficienza e rapidità eccezionali e per tutta l’Italia Bologna la Rossa diventa la città che difende il corpo delle donne libere.
Prende di fatto vita nel capoluogo emiliano il primo modello italiano di centro per la salute oncologica femminile. Un’idea attualissima, che dopo la morte di Maltoni non ha avuto eredi capaci di rilanciarla con la necessaria convinzione. Negli anni di massima visibilità dell’Istituto – parliamo degli anni ’70 – una ‘signora’ che fosse entrata nell’edificio ampliato e ristrutturato di Viale Ercolani 4 a Bologna avrebbe potuto fare, in una sola mattinata, uno screening oncologico completo dell’utero e della mammella così come dell’apparato urinario e, se fumatrice, conoscere lo stato di salute dei suoi polmoni. Il tutto gratuitamente, comprese eventuali biopsia o colposcopia. In caso poi ci fosse stato bisogno di fare qualcosa in più – un intervento chirurgico mirato o una seduta di alcolizzazione – la paziente sarebbe stata avviata al reparto con una precisa diagnosi: grazie alla presenza in Istituto di uno specialista, si arrivava persino ad operare ambulatorialmente i noduli alla mammella !
Con lo screening sui tumori femminili Maltoni ottiene il primo grande risultato, che lo impone all’attenzione di tutti come il simbolo di un’oncologia che va tra le persone per dire che se i giochi della politica possono dimenticare che il cancro è un problema sistemico, ci sono ricercatori che, con la prevenzione, restano a fianco dei cittadini. Testimoni di una Medicina che pratica una «vigile attenzione all’uomo» e che non aspetta dall’industria del farmaco la pillola miracolosa, ma trova e organizza al meglio le risorse, lasciando i burocrati con le loro ‘circolari’ e i Baroni universitari alle loro lotte al coltello tra lobby contrapposte.
Cesare Maltoni è così pragmatico e anticipatore da prendere sotto di sé per avviarla all’oncologia clinica (cioè alla cura dei malati di cancro, che ancora non erano affidati a specialisti, ma a chirurghi e radiologi) una generazione intera di giovani medici. Quindici anni prima che nascessero le scuole di specializzazione. Parliamo infatti del 1965, cioè di un Maltoni al primo anno di primariato, quando l’unico medico dello staff dell’Addarii che avesse competenze clinico-oncologiche era una sua ex-compagna di corso, Serena Peretti.
Nel 1970 Maltoni appare già come un astro nascente della cancerologia. Un personaggio che il grande Simposio Internazionale sulla Diagnosi e Prevenzione del Cancro – avvenuto nell’aprile 1973 portando a Bologna la créme dell’oncologia mondiale grazie allo sforzo di una città intera – consacra come uno dei principali ispiratori europei di una prevenzione oncologica a tutto tondo. Dai luoghi di lavoro ai luoghi di vita.
Uno che guarda avanti lucidamente e non ha alcuna intenzione di prendere tempo. La prevenzione secondaria e terziaria gli hanno già dato grossi risultati, è vero, ma la pratica citologica mostra che ci sono tumori (alla vescica o al polmone, per esempio) per i quali identificare subito lesioni tumorali o pretumorali non migliora l’incidenza del male. Bisogna mettere mano alla prevenzione primaria. Fare in modo che l’uomo non venga a contatto con quelle sostanze che provocano mutazioni nel DNA e favoriscono la trasformazione neoplastica delle cellule. E’ tempo, secondo lui, che si affronti il dato di fatto che l’80% dei tumori ha origine ambientale e che forme tumorali come il mesotelioma pleurico, la triste eredità oncologica dei lavoratori dell’amianto, non erano neppure documentate prima del 1945 e del boom del suo impiego in edilizia, nella produzione di tubature, nei cantieri navali e ferroviari.
Cesare alza la posta. E’ alla ricerca di un risultato emblematico, che ribalti gli equilibri fra Scienza e industria. Un’industria, specie quella chimica, in grado di muovere giri d’affari miliardari e di trattare direttamente coi Governi; imponendo lei stessa i valori di soglia da ritenersi sicuri per le sostanze, senza sensibili opposizioni. Spesso nemmeno da parte sindacale. La ricerca biomedica fatica a farsi sentire; a produrre un modello sperimentale credibile che riesca a stabilire senza ombra di dubbio e prima della loro messa in commercio quali sostanze siano cancerogene e quali no. Forte dei suoi legami con il Prof. Enrico Vigliani della Clinica del Lavoro “Devoto”di Milano, Maltoni arriva a convincere, attraverso il suo responsabile medico, Emilio Bartalini, la più grande azienda chimica italiana, cioè la Montedison, a testare sui ratti la cancerogenicità del Cloruro di Vinile Monomero o CVM. Molecola volatile sospettata di essere cancerogena per gli operai della plastica che la impiegano nelle lavorazioni. Ancora una volta è il Partito Comunista Italiano, che a Bologna ha raccolto nelle urne il riconoscimento dell’aiuto offerto ai tempi dello screening, a fare da sponda a Maltoni. Luigi Orlandi, primo comunista a ricoprire l’incarico di Presidente degli “Ospedali di Bologna”, si impegna insieme a Cesare nella ricerca di un luogo adatto a impiantare un grande saggio di cancerogenesi in vivo su migliaia di animali da esperimento.
E’ l’inverno del 1971; la scelta dei due cade su una proprietà ospedaliera nella campagna bolognese, il Castello di Bentivoglio, che tuttora ospita la sezione sperimentale dell’Istituto Ramazzini, Cooperativa sociale creata nel 1987 e nella quale Maltoni farà confluire i laboratori dopo averli staccati dall’Addarii, nel 1992. In questa ex-dimora, patrizia a venti km dal capoluogo, la Montedison e le altre aziende chimiche europee aderenti a quello che prende il nome di “Bentivoglio Project” aiutano Maltoni a impiantare un “inalatorio”.
In questa struttura vengono sistemate della cabine stagne di gasaggio; apparecchiature rivoluzionarie costruite ad hoc e in grado di far respirare ai ratti le stesse concentrazioni di Cloruro di Vinile inalate in fabbrica dagli operai. Quello che la multinazionale milanese si aspetta da Cesare è che indichi una nuova soglia limite di CVM che sia tollerabile per l’uomo. Forse inferiore ai 500 PPM allora considerati sicuri (ossia 500 parti di sostanza per milione di parti d’aria), ma comunque buono per essere comunicato alle autorità e rassicurarle sulle buone intenzioni dell’industria. Gestendo tutto come sempre; in modo unilaterale, rassicurante, paternalistico.
Maltoni lascia credere che sarà così, ma il suo brillante percorso di oncologo e tossicologo sperimentale gli ha già insegnato che le soglie, in cancerogenesi chimica, non esistono. Se una sostanza è cancerogena per l’uomo, più si allarga il numero di persone esposte tanto più sono quelle che ammaleranno. Anche a dosi ritenute basse. E se questa è la verità della Scienza, una società sana dovrà vietare il contatto con quella sostanza. Riconquistare il primato della salute pubblica rispetto alle esigenze di un dato modello produttivo. Perché se anche una sola persona ammala di cancro per permettere l’altrui profitto questa è una sconfitta per la civiltà!
Il modello sperimentale di cancerogenesi che Maltoni costruisce con il suo team per l’esperimento avviato a Bentivoglio il 1 luglio 1971 sarà talmente affidabile da permettergli, già a dicembre del 1972, di ritrovare in un lavoratore di Porto Marghera – deceduto, dicono i chirurghi, per un misterioso tumore al fegato – una neoplasia rarissima: l’angiosarcoma epatico. La stessa che Cesare ha identificato pochi mesi prima nei ratti Sprague-Dawley che hanno inalato il CVM per otto ore al giorno.
Con il 1976 Cesare Maltoni avvia le ricerche con cui viene provata (1982) la cancerogenicità del benzene presente nei carburanti delle autovetture, e, dunque, il percorso che porta la parte sperimentale dell’Addarii, a Bentivoglio, a testare nei successivi venticinque anni decine di sostanze chimiche (i cd. ‘mega-agenti’ industriali) e altri fattori di rischio che la civiltà dei consumi ‘impone’ agli esseri umani.
E’ un’indagine a tutto campo, in cui il team di Maltoni, che vede emergere collaboratori capaci come Fiorella Belpoggi e Morando Soffritti, dimostra il carattere cancerogeno dei CFC dei frigoriferi, della formaldeide, di solventi diffusissimi come la trielina, dell’esposizione alle radiazioni ionizzanti a basse dosi collegate all’industria del nucleare civile. Per finire con i campi elettromagnetici degli elettrodotti, ma senza dimenticare di ripassare per i propellenti: nel 1996 giunge il riscontro sperimentale che sancisce il carattere cancerogeno dell’MTBE, principale additivo della tanto sbandierata ‘benzina verde’.
Secondo solo a quello del National Toxicology Program statunitense, il serrato piano di saggi sperimentali predittivi che lo staff di Maltoni porta avanti a Bentivoglio di Bologna, appare fin dai primi ani ’80 (e tale resta fino alla scomparsa del Prof.) come un realistico contraltare tanto al boom della chemioterapia negli ospedali europei, che sotto la pressione dell’industria farmaceutica viene spesso impiegata sui pazienti senza vere statistiche sull’efficacia dei farmaci antiblastici, quanto all’oncologia alternativa dei tanti maghi del tumore, che promettono di curare il male del secolo coi loro mix di farmaci o con sieri dalle portentose qualità.
Un’eccellenza riconosciuta che porta Maltoni a diventare un punto di riferimento ineludibile per l’informazione giornalistica e televisiva degli anni ’80 e ‘90 ogni qual volta si affaccia un allarme legato alla diffusione di inquinanti, siano essi l’amianto, i pesticidi o le radiazioni.
Cesare Maltoni e i pesticidi – Linea Verde (dicembre 1987) servizio sul Convegno di Ferrara su salute e fitofarmaci (settembre 1987).
Cesare Maltoni sul fumo da tabacco – servizio per la LIT su Telesanterno circa 1993-
Cesare Maltoni sulla cancerogenicità del benzene e degli additivi dei carburanti – puntata TGR Leonardo (1992- 1993).
Cesare Maltoni conclusioni ricerca MTBE – TGR Leonardo, puntata del 1996.
Cesare Maltoni sulla cancerogenicità dell’amianto – TGR Ambiente Italia, puntata del 13 marzo 1999.
Cesare Maltoni polemiche su cancerogenicità MTBE – CIRCUS stagione 1999-2000 puntata del 18 gennaio 2000 ??
Cesare Maltoni la cancerogenicità della radiazioni ionizzanti – TG2 Dossier – I danni dell’Uranio impoverito (gennaio 2001).
In ossequio alla sua identità di scienziato impegnato, Cesare coinvolge direttamente l’Istituto Addarii nel riconoscimento dei tumori di origine professionale e nell’informazione dei lavoratori impiegati in lavorazioni pericolose. In particolare nel comparto ferroviario (Bologna stessa conta fino alla metà degli anni ‘80 sia la “Officine Casaralta”, attiva nella coibentazione dei vagoni, sia una delle più grosse Officine Grandi Riparazioni delle F.S., con 1500 addetti), dove Cesare è stabilmente al fianco degli operai di tutta Italia nella lotta per i risarcimenti da esposizione all’amianto. In un paese dove interessi di parte, clientele e tanta pseudoscienza ritarderanno fino al 1991 una legislazione che impedisca l’impiego di questo minerale riconosciuto cancerogeno senza ombra di dubbio almeno dal 1965.
Questo suo essere un punto di riferimento, come ci si può aspettare, lo rende però scomodo; Maltoni deve ben presto confrontarsi con le inquietudini di una società e di un mondo politico messi a disagio dal progressivo rallentamento dell’economia, in Italia come in tutto l’occidente industrializzato. Inquietudini che spesso sconfinano nell’impazienza o nell’isterismo e che fanno invocare anche per il cancro soluzioni rapide, definitive, sbrigative. Maltoni ha un bel da spiegare che di fronte ai lenti progressi nella biologia la via maestra da battere è quella della prevenzione e che occorrono tempo e fondi. Anche nella sua Bologna le spinte centrifughe iniziano a farsi avanti e con esse le critiche per un’attività di ricerca che viene giudicata troppo costosa e i cui risultati disorientano e allarmano l’opinione pubblica. Soprattutto quando si parla di inquinamento urbano. A finire sotto l’occhio di Maltoni; processate dai ratti del laboratorio di Bentivoglio, non sono più solo le sostanze che fanno ammalare di cancro i lavoratori, ma le conseguenze di un intero e non più sostenibile modello di sviluppo. Ottocentesco, sperperatore delle risorse e interessato all’ambiente solo finché una certa agiografia patinata non collide con gli interessi delle grandi aziende. Che con i ciclici venti di recessione non vanno troppo disturbate nei fatturati e nella libertà di manovra.
Tra il 1983 e il 1984 Cesare subisce una brusca battuta d’arresto allorché propone ai vertici dell’USL 28 di trasformare l’Istituto Oncologico Addarii in un megacentro per la diagnosi e la cura dei tumori, sul modello dell’Istituto Europeo di Oncologia di Umberto Veronesi, a Milano. La proposta, cui la potente lobby dei primari universitari è contraria, preferendo dotare ogni Istituto di proprie strutture clinico-oncologiche, provoca spaccature anche nel Partito Comunista, sempre egemone in Emilia Romagna, ma un po’ smarrito di fronte ai lustrini del socialismo governativo di Craxi. Il progetto del Centro Tumori non vedrà mai la luce e questo sarà il segnale che nemmeno la sinistra è più disposta a condividere senza condizioni le idee di Maltoni. Soprattutto in quel suo considerare il cancro come “l’indice biologico di un alterato rapporto tra l’uomo e l’ambiente”.
Alla visione sistemica, universalistica, di Maltoni, si viene sostituendo un approccio minimalista, che vede nel tumore una malattia come le altre, con tutte le opportunità di profitto e potere legate alla sua crescente incidenza e agli investimenti dello Stato sulla spesa farmaceutica nel settore in ascesa dei farmaci chemioterapici.
Di fronte a queste scelte, destinate nel tempo ad appannare l’identità di Bologna come punta di diamante nella prevenzione primaria, la mossa di Cesare è di puntare a rendere autonomo il grande laboratorio di Bentivoglio. Una scelta dolorosa, ma come sempre pragmatica: nel 1992 la parte sperimentale dell’Addarii si stacca dall’Ospedale Sant’Orsola di Bologna per rientrare nel perimetro della Cooperativa Ramazzini (fondata da Maltoni cinque anni prima, come si è in precedenza accennato). Per volere di Cesare a provvedere alle necessità quotidiane di una struttura che vuole restare presidio di rilievo mondiale per la ricerca sui cancerogeni non è più la Sanità Pubblica italiana, ma il contributo di decine di migliaia di soci. Mentre per i finanziamenti, le collaborazioni e il riconoscimento dei propri risultati il suo Centro di Ricerca guarda sempre di più oltre i confini nazionali.
Non è un caso che il messaggio di Cesare Maltoni, nonostante le tante apparizioni televisive (a testimonianza di una stima mai venuta meno da parte dei cittadini) finirà con l’essere più influente negli Stati Uniti che non tra le elites del suo stesso Paese!
Un Maltoni, quindi, a vocazione internazionale quello che, annusata l’aria incerta che inizia a tirare aBologna (ma per nulla intenzionato a farsi da parte) comprende la necessità di spostare a livello globale la lotta contro la tentazione di partiti e Governi di basare le proprie politiche ambientali su ricerche scientifiche che contengono solo verità parziali. Comode, perché gestibili meglio di quelle intere.
Nel 1982, insieme all’amico americano, Irving Selikoff, Cesare riesce a coagulare l’interesse di un centinaio di eminenti personalità scientifiche di tutto il mondo verso un organismo che riunisca medici, epidemiologi, oncologi, tossicologi come Myron Mehlmann, ma anche membri della società civile (tra i quali spicca l’avvocato delle Trade Unions Sheldon W. Samuels) intorno ai temi centrali dell’ambiente e di un vero progresso.
Nasce così il “Collegium Ramazzini“, intitolato a un medico carpigiano, Bernardino Ramazzini, che fu il primo a intuire (siamo nel ‘600 …) il legame che sussisteva fra le malattie degli uomini e il lavoro che svolgevano. Quella che viene creata con il “Collegium” (ancor oggi una delle organizzazioni ambientaliste più influenti del mondo e la cui riunione annuale dei fellows avviene a Carpi) è una rete in grado di verificare su scala planetaria il potenziale di malattie collegabili all’ambiente di vita o di lavoro, di diffondere i risultati ottenuti dai laboratori indipendenti e di presentare alla più vasta platea le implicazioni di tali scoperte.
Intervista a Maltoni e resoconto Giornate Ramazziniane al TG3 Emilia Romagna del 1/12/1988).
Nel 1985 Cesare regala a una sempre più volubile Bologna il convegno “Living in a chemical world”, nel corso del quale l’impatto dello sviluppo industriale sull’incidenza del cancro conosce una denuncia mai come prima compatta. Scienziati ed esperti di ecologia rivolgono i propri argomenti non ai propri pari, ma alle Istituzioni, ai sindacati, ai Parlamenti, alle associazioni non governative e alle congregazioni religiose: in una lettera ufficiale Papa Giovanni Paolo II invoca sui convegnisti nientemeno che l’ispirazione celeste!
A testimonianza di una fame incessante di stimoli intellettuali e di una tensione profonda a comprendere il cancro come un processo che coinvolge e sconvolge l’integrità psicofisica dell’essere umano, Cesare incomincia a chiedere, intorno al 1985, di incontrare i pazienti che si presentano all’Addarii. E nel campo della clinica, dove all’aumentata disponibilità di chemioterapici si affianca la tendenza non sempre giustificata degli specialisti a confidare in un menù esclusivo di principi attivi costruito su basi empiriche, Maltoni applica il rigore dello sperimentale. Non affronta mai un caso senza un’anamnesi accurata della vita lavorativa della persona; se il suo tumore è già stato operato, vuol vedere i vetrini, trasferendo le osservazioni decennali condotte sugli animali. Riesce in questo modo a fare diagnosi molto precise, procurandosi una fama di clinico che contribuirà non poco a far affluire soci e donazioni alla Cooperativa Ramazzini.
Dal concreto contatto con i pazienti, il Prof. ricava inoltre una percezione diretta del fatto che i progressi della clinica stabilizzano una quota crescente di cancerosi come malati cronici. Persone bisognose di assistenza, che l’oncologo specialista mette da parte perché non può guarirle. Questi pazienti hanno spesso sul collo il piede del più tirannico fra i despoti, il dolore oncologico; che si spinge fino alla terebrazione; più spaventosa della morte. Leggendo gli scritti di Cicely Saunders, Cesare incontra l’idea del dolore totale, che nei malati terminali ha un’origine somatica, ma è fatto anche di depressione, odio sociale, abbattimento spirituale. La Saunders parla di cure palliative; che non controllano solo il dolore, ma garantiscono più qualità di vita, sostengono a livello psicologico, alleviano l’angoscia dei familiari. Nel 1967, a Londra, Cicely ha fondato il suo hospice, il Saint Christopher. Nella struttura, che ha anche una parte residenziale, i malati cronici gravi seguono le terapie somministrate da personale medico appositamente formato. Maltoni visita il Saint Christopher e altre strutture simili in America e nel nord Europa. Vuole crearne uno nella sua città.
Bologna e ancora Bologna nel cuore; insieme alla speranza di poter essere amato, un giorno, da tutti.
Nel 1991 la facoltosa industriale bolognese Isabella Seragnoli promette il suo appoggio. Ma il compito è difficile; l’Italia è un paese di tradizioni cattoliche dove negli ambienti medici e politici si fatica a far passare un concetto laico di dolore. La tendenza è a rimuovere il periodo che precede la morte; ad alimentare un corto circuito per cui più il paziente si avvicina ad essa più i medici gli impongono esami strumentali invasivi e quasi sempre inutili.
Maltoni affronta la questione da par suo. Nelle audizioni parlamentari ha buon gioco a dimostrare l’errore strategico di non prevedere percorsi terapeutici per i cancerosi inguaribili. Fa passare la distinzione tra sedazione palliativa, ossia l’uso di farmaci che conducano alla perdita della coscienza, abolendo la percezione del dolore, e eutanasia. Da rigettare in quanto «barbara prospettiva di una soluzione finale». L’atteggiamento deciso di Cesare raccoglie consensi trasversali, così come il fatto che parli delle cure palliative come di un ambito dell’assistenza sanitaria, coi suoi medici e le sue professioni. E non come di un insieme di gesti caritatevoli. Nel 1999, dopo anni di lavoro, arriva l’ok del Parlamento con la Legge 39/99.
Per lui, che non ha voluto una famiglia e la solitudine la conosce bene, è di grande conforto veder nascere un luogo dove la più grande paura delle persone, morire abbandonate, possa in parte essere cancellata. Superati da un pezzo i sessant’anni è diventato sentimentale e si incupisce facilmente, anche perché nel 1997 è arrivato il pensionamento. A Bentivoglio intanto, a un paio di chilometri dal centro di ricerca, viene posata la prima pietra dell’Hospice Seragnoli.
Che Cesare non vedrà mai finito; muore nella sua casa di San Lazzaro il 22 gennaio 2001.
Da qui nasce Casa Maltoni.
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